Da Noor Daoud alla W Series passando dalle Speed Sisters
Noor Daoud è una ragazza palestinese che ama i motori, ma non solo. È anche una pilota di auto da corsa ed è membro di un team, tutto al femminile, molto conosciuto nel motorsport, Speed Sisters. Noor in una delle ultime competizioni, gareggiata sul circuito di Sharm el-Sheikh, in Egitto, ha dovuto abbandonare al secondo giro per problemi tecnici al motore della sua M50 Bmw: ma alla fine un riconoscimento morale, prima che “trofeistico”, se l’è portato a casa, se non altro per essere stata l’unica donna in gara.
Per la ventisettenne araba niente di nuovo in realtà, date le numerose competizioni affrontate, sia da sola che con il team, in cui essere l’unica donna sul circuito era tanto motivo di orgoglio quanto ormai una prassi. Nata e cresciuta in una parte di mondo tra le più restie a far affermare la presenza (e valenza) femminile nei diversi ambiti della vita sociale, Noor ha sempre serenamente combattuto affinché la passione per le auto da corsa, che l’accompagna da quando era solo una bambina, potesse diventare parte integrante della sua vita anche da adulta – “Noor Daoud: Drift Life” la sua pagina personale su Facebook.
Così sono già 10 anni che si diverte tra traversi, derapate e curve, tutte cose imparate sulle strade palestinesi, lì dove erano in tanti a ripeterle che era pazza, che lo sport era cosa da uomini. Ma lei e le sue compagne di derapate non hanno mai avuto tempo per dare ascolto a certe restrizioni culturali, e anzi hanno fatto della loro passione uno strumento per sentirsi e dimostrarsi libere, nonostante l’occupazione militare cui la loro terra – la Cisgiordania – era ed è sottoposta: “voglio solo far vedere al mondo che se anche siamo sotto un’occupazione, non vuol dire che ci rintaniamo nelle nostre case”, aveva dichiarato in un’intervista qualche tempo fa. Oggi però, grazie anche al suo passaporto statunitense, ha potuto portare la sua Bmw fumante anche in competizioni internazionali come la Red Bull Car Drift che si è tenuta negli Emirati Arabi, la King of Europe e Queen of Europe, e sul circuito di Yas Marina, dove si è classificata terza.
Ecco, ho voluto parlare di Noor a margine della notizia diffusa giorni fa – e di cui abbiamo parlato anche qui – circa l’inaugurazione, per il prossimo 2019, della nuova W Series, categoria femminile di monoposto riservata alle donne e ispirata a due grandi atlete del campo, Maria Teresa De Filippis e Lella Lombardi, le uniche due quote femminili che siano mai state presenti (in annate diverse) nella Formula 1.
Senza entrare di nuovo nel merito dei tecnicismi, che cos’è questa W Series? Un modo per consacrare la presenza femminile nel motorsport e anzi, per celebrarla, forse. Oppure un voler ammettere che “sì, le donne amano e praticano il motorsport, ma non lo faranno mai ai livelli maschili”. Pur sentendomi tentata di abbracciare la seconda eventualità, il dubbio che mi sorge è quale sia il senso di formare separatamente le donne e gli uomini con lo scopo di avere una competizione internazionale come la Formula 1 in cui far gareggiare entrambi. E se, come afferma Catherine Bond Miur, amministratrice delegata della W Series, che questa categoria servirà a “incrementare la partecipazione femminile al motorsport, per creare un habitat competitivo in cui formarle e farle crescere”, perché non formarle e renderle competitive in un campionato misto? Allora tanto valeva creare anche una Formula 1 femminile.
Certo, è vero che in tanti altri sport sono previste le due categorie, ma chi ha mai detto che questo sia un bene? Perché pensare che un’unica categoria, seppure di uno sport prettamente (o storicamente e letterariamente) maschile, debba inibire le donne dal parteciparvi? E viceversa, sia chiaro. Anche se pochi, ci sono quegli sport in cui la quota rosa è da sempre superiore alla blu: pensiamo alla danza, o anche alla pallavolo o al nuoto sincronizzato: ma cosa ha vietato agli uomini di seguire le proprie inclinazioni, chi per la danza, chi per la pallavolo (tutti sport in cui la presenza maschile si è fatta sempre più importante)? Tranne i pregiudizi e i preconcetti di società spesso troppo legate alla tradizione – tanto per utilizzare un eufemismo –, niente li ha fermati dal diventare Roberto Bolle, Rudolf Nureev o Ivan Zaytsev. Così come niente, neanche la cultura tra le più rigide e legate alle convenzioni sociali come quella araba, ha impedito a una ragazzina del West Bank di diventare Noord Daoud.
Allora mi sono divertita a immaginare cosa penserebbero oggi Maria Teresa De Filippis e Lella Lombardi, leggendo della W Series: chi lo sa, magari sarebbero orgogliose di una categoria che è pur sempre un riconoscimento alla presenza femminile che loro hanno reso leggendaria nel motorsport; oppure, invece, avrebbero accennato a un sorriso, un gesto di compiacimento e poi avrebbero pensato che loro ce l’avevano fatta comunque, anche quando la società le voleva a governare la casa e i figli anziché dar filo da torcere ai loro colleghi uomini.